L'eremo di San Giovanni

Eremitaggio vero in Majella


Le quattro giornate in giro per la Majella alla fine sono saltate, incredibile ma nei primi di Agosto siamo stati fortunati ad aver goduto di una giornata e mezza di bel tempo su quattro che avevamo a disposizione; la lista dei desideri era lunga, un sacco di posti volevamo raggiungere, non esclusivamente le alte vette, molti in basso ed infrattati, i più sono rimasti incompiuti. Dopo una settimana però eccoci di nuovo qui, sempre dalle parti di Caramanico, questa volta per arrivare a conoscere, aggiungo finalmente, l’eremo di San Giovanni. Arrivati a Decontra, superiamo sulla sinistra la piccola chiesetta, subito evidente dopo le prime case del paese, e parcheggiamo sul tornante successivo in fondo alla via, dove parte una larga brecciata; nascosto da un secchio della spazzatura si vede appena un cartello che indica le direzioni ma non mancano bandierine e riferimenti che confermano l’inizio del sentiero. Trecento metri più avanti, su una grossa quercia l’indicazione di girare a destra, la direzione è in comune con i sentieri che raggiungono la Valle Giumentina ed l’eremo di San Bartolomeo; alla successiva prima curva a sinistra occorre fare attenzione a lasciare la strada e continuare a diritti su un piccolo tratturo incassato tra un basso muro di cinta ed un appezzamento di proprietà, una palina sulla destra è quasi nascosta dai rovi. Sconnesso e all’ombra di piccole querce sale con leggera pendenza fino ad incontrare di nuovo la strada polverosa (in pratica abbiamo tagliato per una scorciatoia, sarà una costante per un lungo tratto del percorso), all’incrocio delle paline ed un cartello descrittivo dei percorsi della zona indicano il sentiero B1, ancora sulla destra, che d’ora in poi seguiremo. Ampio ed erboso sentiero, attraversa piccola boscaglia e campi coltivati a foraggio che scendono fino alle prime case di Decontra, oltre sopra i tetti delle poche case spicca il profilo insolito della lunga cresta del Rapina/Pescofalcone che sembra un tutt’uno con la cima dell’Amaro. Incontriamo una prima rude fonte, dopo circa un chilometro abbandoniamo la boscaglia e proseguiamo in mezzo ad erba alta e secca fino ad incrociare di nuovo la strada. Qui commettiamo un errore che risulterà propizio; avremmo dovuto scendere di pochi metri e riprendere il sentiero attraversando la strada, c’è un ometto con tanto di bandierina ma noi non li abbiamo visti. Continuiamo a salire per la strada fino a che incontriamo un bellissimo Tholos sulla destra, in bella posizione panoramica; i Tholos sono la caratteristiche capanne in mattoni della Majella, se avessimo continuato sul sentiero lo avremmo perso; e non solo il Tholos avremmo mancato ma anche tutto il meraviglioso panorama sul vallone dell’Orfento, da Caramanico fino al Monte Rotondo, e la prospettiva sempre unica e qui ancora più imponente, della lunga dorsale che sale al Pescofalcone. Riprendiamo la strada, poco più avanti, sulla destra, si stacca un sentiero nell’erba alta e arsa ormai dal sole che continua per le praterie, sale attraversando vari muretti di contenimento, ad ogni passo ondate di grilli saltano davanti a noi in un turbinio frenetico verso ogni direzione, ci saltano persino addosso, si riplacano e spariscono di nuovo tra l’erba una volta che siamo passati; le cime della la Majelletta fino al Rotondo ci fanno da orizzonte mentre dietro il mondo è aperto al vicino Morrone fino al Sirente e più lontano fino alle inconfondibili moli del Gran Sasso. Che posto d’incanto, pensavo questa salita per le praterie di Pratedonica come un noioso momento di avvicinamento e si è dimostrata invece una dorsale panoramicissima dalle prospettive nuove ed insolite. La traccia passa vicino ad un rudere di un Tholos ancora più grande, incrocia di nuovo la strada e la riabbandona a varie riprese, sfiora una prima fontana in cemento e più in alto una seconda. Dalla seconda fonte ci sono tracce di calpestio che si staccano dalla vicina strada e tagliano in salita, la carta indica l’esistenza di sentieri secondari che permettono di tagliare le anse della strada, sulla carta il sentiero è di quelli tratteggiati, sul terreno c’è solo un calpestio che si inoltra e si perde quasi subito nell’erba alta; decidiamo di non proseguire e di tornare indietro per continuare sulla strada. Un curvone, poche centinaia di metri e si infila nel bosco, incrocia il sentiero dello Spirito che si inoltra nella valle di Santo Spitito, verso l’omonimo eremo; dalla parte opposta del largo sentiero S si apre nel bosco una traccia poco visibile, sulla carta sembrerebbe un piccolo tratturo tratteggiato, se tanto mi da tanto permette di raggiungere l’eremo di San Giovanni tagliando sotto, ma non ne sono certo, la tentazione è forte ma alla fine continuiamo sul percorso principale che si defila in salita fino a raggiungere una radura e Pianagrande dove una sbarra chiude il percorso alle quattro ruote. Paline, ometti, cartelli ovunque, non puoi sbagliare anche se tutte le direzioni alla fine sono giuste; continuiamo prendendo sulla destra, senza oltrepassare la sbarra, il sentiero rientra nel bosco ed inizia presto s scendere. Scende e scende fino ad una palina che fa deviare a sinistra su un lungo traverso ripido sul fianco della montagna boscoso ed estremamente ripido. Fila per un lungo tratto diritto, poi alcuni tornanti gli fanno fare un nuovo salto verso il basso fino ad un affaccio strepitoso sul vallone dell’Orfento. Una radura che si allarga improvvisamente permette una vista davvero mozzafiato, sulla profonda boscossissima valle, sulle alte vette del Rotondo e del Focalone e sulla selvaggia testata della valle. E’ di una imponenza incredibile l’impatto, è tutto troppo, troppo profondo, troppo boscoso, troppo alto e selvaggio, troppo e basta. Guardando verso dove continua il sentiero, traversando ancora il fianco della montagna, tra gli alberi, cerco segni dell’eremo, oltre quell’imbuto, dalla parte opposta nemmeno troppo distante si scorge solo una parete rocciosa verticale, ma dove cavolo si andava infrattando il nostro buon Pietro? Non rimaneva che andare a cercarlo, il sentiero scende un po’, taglia un fianco se possibile ancora più ripido, risale una larga cengia rocciosa immersa nel bosco fino ad appianarsi nuovamente nei pressi di una palina. Lì, davanti all’improvviso la scalinata e la lunga cengia scalpellata, solo perché ho visto un sacco di foto riconosco l’ingresso dell’eremo altrimenti avrei continuato. Se non ci si accorge della scalinata di accesso all’eremo e si continua per la cengia ci si trova sotto una grotta aperta dove si sente un copioso stillicidio d’acqua, poco fuori della parete rocciosa il bosco precipita nel vallone, ancora avanti e poco oltre un roccione massiccio fa inerpicare il sentiero che si perde nel paretone verticale. L’eremo di san Giovani è lì sopra, la volta della grotta è la sporgenza su cui poggiano i suoi vani, le due “stanze” attigue con al centro una colonna scalpellata nella roccia stessa; un altarino, poche cose ed è tutto. Per entrare ed uscire dai piccoli vani l’unico accesso è la lunga cengia scavata nella roccia che nasce dalle scalette, anche loro scalpellate nella parete, che abbiamo visto arrivando. Tutto qui, una grotta poco profonda, sopra quella a terra, sospesa a quindici metri di altezza, spoglia e aperta verso l’esterno. Davvero un angolo solitario ed appartato, privo di ogni superfluo. Chissà cosa poteva essere nel milletrecento ma certo con il poco spazio a disposizione non molto di più di quello che c’è oggi. L’accesso è insolito, quasi da vertigine, una cengia scalpellata di una quindicina di metri traversa la parete fino alle stanze, si alza lentamente da terra o forse sarebbe meglio dire che è il terreno sotto che scivola verso il basso ma il risultato è lo stesso, forte esposizione; come se non bastasse la cengia dà la sensazione di essere leggermente inclinata e pare volerti buttare verso l’esterno; l’accesso ai vani e quindi all’eremo vero è proprio al termine del camminamento è sbarrato da un costone sporgente rispetto alla parete che è tagliato alla base, per entrare si è costretti a strisciare lentamente fino ad oltrepassarlo. Avevo sentito parlare di tutto questo ma il bello è che dopo averlo tanto atteso, dopo tanto cercarlo … non sono riuscito ad entrare nelle stanze dell’eremo; già proprio così, mi ha bloccato la cengia esposta e la mancanza di protezioni o appigli. E’ stato forte il senso di vertigine ed alla fine … dietro front. L’eremo l’ho potuto vedere salendo sul roccione dall’altra parte della grotta, praticamente mi ci sono trovato di fronte a venti metri, non è la stessa cosa ma va bene lo stesso. La cosa veramente ridicola è che il roccione sporge su un salto verso la profonda valle dell’Orfento, lì sopra non avevo problemi, sulla cengia mi sono bloccato, il momento della “pippa” capita a tutti. Davvero singolare questo eremo, probabilmente così scoperto ed isolato era utilizzato solo nel periodo estivo; capisco che nei primi secoli dello scorso millennio i nostri avi erano più temprati alle intemperie ma oggi mi diventa difficile pensare a degli umani che decidessero di viverci per un periodo anche mediamente lungo. Anche il secondo tentativo di salire dentro l’eremo si ferma sulla cengia, mi arrendo, oggi è così, mi prendo un po’ in giro e decidiamo di ripartire alla volta di Pianagrande; non riprendiamo il sentiero dell’andata, una palina indica Pianagrande per un sentiero che scivola sopra il sentiero dell’andata sotto i costoni verticali. Una bandierina bianco rossa ed una freccia poco oltre indicano di salire verso l’alto, altre grossolane scale scavate nella roccia e che probabilmente hanno la stessa origine di quelle d’accesso all’eremo si arrampicano scomposte e sporgenti. E’ la giornata delle vertigini, mica mi sento tanto per la quale pure qui! Marina mi prende bene in giro per non dire altro e mi spinge verso l’alto, basta non guardare e si sale; certo che in alcuni momenti gli affacci anche se affascinanti sono davvero verticali e poco protetti. Alcune rampe e sono fuori da quella che sembra quasi una scala a chiocciola, un ultimo affaccio ancora più diretto e verticale apre gli orizzonti sui ripidi fianchi della montagna e fino al Morrone. La Majella oggi è meravigliosa, anche lontani dalle altissime vette è strepitosa e regala angoli di natura isolati e unici. Alcuni escursionisti scendono dall’alto, in silenzio ringrazio la sorte di non essere al loro posto e di non dover affrontare qual tratto di ripidi gradoni in discesa. Il sentiero sopra sale per quasi duecento metri dentro il bosco per ampie e ripide svolte ed è ben segnato, quando si allunga in un traverso si è ormai prossimi a Pianagrande; lungo il traverso perdo tempo, fiori, farfalle, insetti e la mia reflex, il piatto è troppo ghiotto per correre via. Si raccorda con la carrareccia il sentiero, quella che scende da Fonte Tettone nei pressi dell’hotel Mamma Rosa, gli spazi si allargano, spuntano lontane le antenne del Blockhaus, verso Ovest invece le vette del Focalone, del Rotondo del Pomilio e del Pescofalcone. Immensa Majella. Si scende da lì, per l’ampia carrareccia, un paio di svolte tra praterie fiorite e farfalle, dentro e fuori dal bosco fino a raggiungere di nuovo la sbarra. Il resto fino a Decontra è un ritorno sulle stesse tracce dell’andata. Di fonte sempre il Morrone e lontano la lunga dorsale del Gran Sasso. Di nuovo praterie arse e di nuovo onde di grilli che si aprono davanti a noi quasi fossimo novelli Mosè. Ora il sole è a picco e il caldo si sente, ogni fontana è una sosta. Arriviamo alla macchina, gli ultimi scorci per qualche foto col piccolo campanile della chiesetta sulla curva che è uno splendido scenario per allungare lo sguardo sulla cresta del Pescofalcone. Arrivederci Decontra, magari torneremo quando sarà il momento della valle dell’Orfento. Il tempo di un salto a Caramanico, birra e patatine non ce le toglie nessuno, il tempo per rivivere il rammarico di non essere riuscito a superare il senso di vertigine sulla cengia di accesso all’eremo e di sentirsi davvero limitati e piccoli, un salto al centro visite per prenotare la visita alla valle dell’Orfento. In questo periodo di grande afflusso turistico non ne fanno di prenotazioni a lunga scadenza e allora non c’era più nulla da chiedere alla giornata, con un arrivederci a questo autunno quando la valle ritornerà solitaria e silenziosa riprendiamo il ritorno verso Ascoli. Durante il ritorno mentre si riparla di questa giornata e di quelle che l’hanno preceduta ci rendiamo conto che la Majella ci ha conquistato, averla avuta lontana ci ha salvato ora è tardi, se non si vuole diventare schiavi di questa montagna l’unica via d’uscita è … non frequentarla.